Sommario: 1. Premessa - 2. Il rafforzamento del modello della derivazione - 3. L’adeguamento ai mutamenti intervenuti nel sistema economico - 4. Una prospettiva glocal.
1. Premessa - Nel disegno di legge delega approvato dal Consiglio dei ministri il 5 ottobre 2021 i criteri direttivi che interessano la normativa in tema di determinazione dell’imponibile IRES sono racchiusi nell’art. 3. In particolare, nel comma, 1, lett. b), che indirizza gli interventi di riforma verso la “semplificazione e razionalizzazione dell’IRES finalizzate alla riduzione degli adempimento amministrativi a carico delle imprese, anche attraverso un rafforzamento del processo di avvicinamento tra valori civilistici e fiscali, con particolare attenzione alla disciplina degli ammortamenti”. E nel comma 1, lett. c), che prospetta una “revisione della disciplina delle variazioni in aumento e in diminuzione all’utile o alla perdita risultante dal conto economico per determinare il reddito imponibile, al fine di adeguarla ai mutamenti intervenuti nel sistema economico anche allineando tendenzialmente detta disciplina a quella vigente nei principali Paesi europei”.
Si tratta, è evidente, di criteri estremamente generici, che stabiliscono vincoli assai blandi, rimettendo al Governo ogni decisione in ordine al grado di ampiezza e di incisività da imprimere ai suddetti interventi. Per questa ragione, se la prospettiva che delineano non è quella della rifondazione, non si può escludere che la loro attuazione superi la mera manutenzione, per innovare fortemente la pertinente normativa. L’auspicio di una proposta di legge delega che esprimesse un'autorevolezza, articolazione e specificazione sufficiente a responsabilizzare, all’atto della sua approvazione, il Parlamento e, se possibile, a convogliare un consenso politico bipartisan, garantendo stabilità alle scelte operate e ai conseguenti approdi normativi, non può, dunque, dirsi, almeno su questo fronte, realizzato.
Il primo criterio postula “un rafforzamento del processo di avvicinamento tra valori civilistici e fiscali, con particolare attenzione alla disciplina degli ammortamenti”. E poiché gli scostamenti tra valori civilistici e fiscali dipendono dalle variazioni al risultato del conto economico che sono imposte o (semplicemente) ammesse dalla normativa tributaria, questo criterio inevitabilmente si intreccia con il secondo, il quale prescrive una “revisione della disciplina delle variazioni in aumento e in diminuzione all’utile o alla perdita risultante dal conto economico per determinare il reddito imponibile al fine di adeguarla ai mutamenti intervenuti nel sistema economico”.
In fase di attuazione, la revisione della disciplina delle variazioni dovrà pertanto essere informata non solo al fine, indicato nel comma 1, lett. c), di adeguare la stessa “ai mutamenti intervenuti nel sistema economico”, ma pure a quello, indicato nel comma 1, lett. b), di rafforzare il “processo di avvicinamento tra valori civilistici e fiscali, con particolare attenzione alla disciplina degli ammortamenti”.
Tuttavia, mentre il primo fine non condiziona la direzione delle misure da adottare nella revisione della suddetta disciplina, potendo le stesse determinare così un restringimento del novero di dette variazioni come un suo ampliamento, il secondo sì, potendo le misure in questione essere indirizzate unicamente verso la produzione del primo risultato.
2. Il rafforzamento del modello della derivazione - Nel prevedere “un rafforzamento del processo di avvicinamento tra valori civilistici e fiscali”, il disegno di legge delega conferma l’adesione della normativa in tema di determinazione dell’imponibile IRES al modello della derivazione (dal risultato del conto economico), e conferma la tendenza, che, per il vero non sempre in modo lineare, ha preso forma a partire dalla L. n. 244/2007, ad elevare il tasso di fedeltà di detta normativa allo stesso.
Il criterio esclude quindi una rivoluzione nella disciplina relativa alla determinazione dell’imponibile IRES.
Esclude, in particolare, il passaggio al modello del doppio binario, secondo il quale detto imponibile è calcolato (possibilmente, ma non necessariamente, su base contabile ed in via analitica, ma) in modo autonomo rispetto al risultato del conto economico. Ma esclude pure, a mio avviso, l’adesione al modello del binario unico, secondo il quale l’imponibile si identifica nel risultato del conto economico. Rafforzare il processo di avvicinamento tra i valori civilistici e fiscali non significa infatti raggiungere una completa sovrapposizione dei secondi ai primi. Rafforzare non è, detto altrimenti, completare, esaurire.
Il modello del binario unico ha, in effetti, sicuri punti di forza, ma anche di debolezza.
In sintesi, quanto ai primi, assicura all’imposta una base economica attendibile, perché formata in via analitica secondo i criteri elaborati dalle scienze aziendali, e semplifica i connessi adempimenti, non richiedendo alle imprese di predisporre un secondo rendiconto in applicazione delle regole tributarie.
Quanto ai secondi, l’attribuzione alle regole contabili del ruolo di regole (anche) tributarie, che connota questo modello, può compromettere la certezza del rapporto tributario, specie quando la soluzione contabile deve essere individuata assumendo a riferimento uno o più criteri sovraordinati, oppure quando la definizione delle voci di bilancio è espressione di apprezzamenti tecnici, di giudizi estimativi o di valutazioni probabilistiche. Il modello in questione, inoltre, impedisce alla normativa tributaria la tutela di interessi che tipicamente ne indirizzano le scelte, come l’interesse ad eliminare o attenuare salti d’imposta o doppie imposizioni, quello a contrastare l’elusione e l’evasione, come pure quello a promuovere l’efficienza, il rafforzamento e la razionalizzazione degli apparati produttivi. In aggiunta, quando l’ordinamento ammette, come quello vigente, più sistemi contabili, è fonte di disparità di trattamento, perché lega la misura del concorso alle pubbliche spese al sistema contabile utilizzato (spesso non per scelta).
Questi punti di debolezza spiegano perché esso stenti ad affermarsi, e perché il legame dell’imponibile con il risultato del conto economico sia concretamente declinato secondo il modello della derivazione. Il meccanismo delle variazioni, obbligatorie o opzionali, a detto risultato, che contraddistingue quest’ultimo, serve (o dovrebbe servire), infatti, ad eliminarli o a contenerli.
Il criterio direttivo considerato non rinnega la scelta di questo modello, ma impone un riesame della normativa costruita intorno ad esso in funzione di un accorciamento della distanza che lo separa dal modello del binario unico. In effetti, a seconda del numero e della intensità delle variazioni al risultato del conto economico che sono richieste o sono ammesse, il modello della derivazione può in concreto assumere una forma tendente a quella del modello del binario unico oppure una forma tendente a quella del modello del doppio binario. Se le variazioni sono poche e di scarsa intensità, la sua forma si avvicina a quella del modello del binario unico. Se sono molte e di forte intensità, si avvicina a quella del modello del doppio binario.
Il modello della derivazione permette, come evidenziato, di contrastare i punti di debolezza del modello del binario unico. Rischia, però, di comprometterne quelli di forza.
In particolare, il meccanismo delle variazioni incide negativamente sulla semplicità applicativa di quest’ultimo, in misura tanto più marcata quanto maggiore è il suo raggio di azione e la complessità delle pertinenti disposizioni, stante la loro proliferazione, stratificazione e delocalizzazione (in documenti normativi diversi dal TUIR). Mette, inoltre, alla prova l’attendibilità economica dell’imponibile, e la sua coerenza al presupposto del tributo, laddove le variazioni non siano riconducibili ad alcun interesse che non sia quello ad incrementare il gettito, oppure, pur essendo collegabili ad un interesse degno di tutela, si rivelano inadeguate a tutelarlo o non proporzionali, andando oltre quanto necessario.
Questi fattori di criticità sono sicuramente presenti nella normativa vigente, specie in quelle sue articolazioni, e non sono poche, dovute ad interventi improvvisati, soggetti a frequenti ripensamenti e ritocchi, secondo estemporanee preoccupazioni di gettito o altrettanto estemporanee pulsioni dirigiste.
L’esigenza di sviluppare una seria azione riformatrice è dunque forte. Una siffatta esigenza era stata, del resto, segnalata già dalla L. n. 244/2007, quale risposta a regime alle questioni affrontate, in modo dichiaratamente transitorio, e in una logica quasi emergenziale, al momento dell’introduzione, per le società applicanti i principi contabili internazionali, del rinvio ai criteri contabili di qualificazione, imputazione temporale e classificazione.
A confermarla contribuiscono le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale, la quale, nella recente sentenza n. 262/2020, ha evidenziato che, “una volta che il legislatore nella sua discrezionalità abbia identificato il presupposto nel possesso del ‘reddito complessivo netto', scegliendo di privilegiare tra diverse opzioni quella della determinazione analitica del reddito, non può, senza rompere un vincolo di coerenza, rendere indeducibile un costo fiscale chiaramente ed interamente inerente”, per poi precisare che “quanto detto non esclude in assoluto che il legislatore possa prevedere limiti alla deducibilità dei costi, anche se effettivamente sostenuti nell’ambito di un’attività d’impresa; tuttavia forme di deducibilità parziale o forfetaria si devono giustificare in termini di proporzionalità e ragionevolezza, come ad esempio al fine di: a) evitare indebite deduzioni di spese di dubbia inerenza; b) evitare ingenti costi di accertamento; c) prevenire fenomeni di evasione o elusione”.
Ha, insomma, messo in chiaro, con riferimento agli oneri, ma fissando termini validi anche per i proventi, che le variazioni al risultato del conto economico sono giustificate, e da ammettere, solo se, e nella misura in cui, superano un giudizio di ragionevolezza e proporzionalità condotto alla luce degli obiettivi che di volta in volta intendono raggiungere.
Su questi presupposti, l’attuazione del criterio direttivo del “rafforzamento del processo di avvicinamento tra valori civilistici e fiscali”, può, pur a modello invariato, rappresentare l’occasione per realizzare un significativo riordino della materia, specie se il riferimento ai valori civilistici e fiscali è inteso, come mi pare debba essere, ai valori esposti a conto economico, e non a quelli esposti nello stato patrimoniale. Questa seconda lettura circoscriverebbe infatti il campo di azione del criterio alle variazioni che determinano divergenze nei valori delle attività e passività, escludendo quelle che non producono un simile effetto. Benché la formula della disposizione non sia univoca, a me pare che l’interpretazione estensiva sia da preferire, perché consente al Governo di operare con maggiore efficacia nell’azione di “semplificazione e razionalizzazione dell’IRES finalizzate alla riduzione degli adempimenti amministrativi a carico delle imprese”[1].
Le logiche di intervento configurabili sono diverse. La logica della cancellazione delle regole di variazione che appaiono non giustificate, arbitrarie e distorsive. Quella della rimodulazione delle regole di variazione che appaiono non adeguate o non proporzionate rispetto ai fini che perseguono. Quella dell’aggiornamento delle regole di variazione che appaiono obsolete. Quella della razionalizzazione delle regole di variazione che appaiono immotivatamente complesse.
In effetti, il criterio in questione non implica che le misure da adottare in sua attuazione debbano necessariamente determinare, come quelle aderenti alla prima logica richiamata, la soppressione delle norme che richiedono o ammettono variazioni al risultato del conto economico. Possono, a mio avviso, intervenire anche mediante la rimodulazione, l’aggiornamento o la razionalizzazione di dette norme, assumendo la capacità di queste diverse misure a contrarre, in concreto, il numero dei casi nei quali occorre, o è possibile, operare variazioni, e così favorire, di fatto, il processo richiamato.
Quale che ne sia la forma, se, e nella misura in cui, le regole di variazione risultano giustificate da un interesse ritenuto meritevole di tutela nell’ambito della legislazione tributaria, e proporzionate al loro obiettivo, un intervento sulle stesse, operato nell’intento di rafforzare la coerenza con il modello del binario unico, presuppone che si sia valutata ammissibile, e opportuna, la rinuncia (con riferimento alla specifica fattispecie da regolare o in generale) alla salvaguardia di detto interesse, oppure che si sia individuato uno strumento di tutela alternativo a quello in precedenza utilizzato.
Degli interessi sopra richiamati, quello alla certezza del rapporto tributario, per come impresso nella normativa riguardante gli ammortamenti, le valutazioni e gli accantonamenti, appare in questa luce quello più a rischio.
Si consideri, per esemplificare i termini della questione, la normativa relativa gli ammortamenti, che è peraltro l’unica nominata nell’art. 3, comma 1, lett. b), del disegno di legge delega, il quale invita il Governo a prestare ad essa una “particolare attenzione” nell’attuazione del criterio direttivo.
Se è vero che i coefficienti ministeriali di ammortamento dei beni materiali strumentali dovrebbero rispecchiare il normale deperimento e consumo degli stessi nei diversi settori produttivi, e dunque assicurare, attraverso il rinvio alla comune esperienza, la proporzionalità del regime, il carattere datato del decreto che li fissa (risalente al 1988), e dunque la incapacità, di fatto, degli stessi ad esprimere detta condizione di normalità, impedisce di valutare lo scostamento dal dato contabile, imposto dalla misura, come strettamente necessario alla luce dell’obiettivo indicato. La disciplina in questione è, pertanto, sicuramente annoverabile tra quelle da revisionare.
La portata di questa revisione dipende però dalle scelte che verranno compiute in relazione al profilo anzidetto. Può infatti assumere configurazioni diverse. Può risolversi in un semplice aggiornamento del decreto, volto ad allineare i coefficienti a quello che attualmente si accerta essere il normale deperimento e consumo delle diverse categorie di cespiti nei diversi settori produttivi, e in una eventuale razionalizzazione dell’elenco di dette categorie e settori. Può, cioè, risolversi in una conferma della regola di variazione, ma può pure determinare la sua cancellazione.
La prima ipotesi di intervento è informata ad una logica migliorativa dell’esistente, riproponendosi unicamente di rimuovere la distonia tra mezzi e fini che affligge la regola di variazione a causa dell’obsolescenza dei coefficienti tabellari. Opera, perciò, in funzione del suo affinamento, senza accantonare l’interesse alla certezza del rapporto tributario, né incidere sulla strumentazione utilizzata per tutelarlo.
La seconda rompe con l’esistente, eliminando qualsiasi filtro al trasferimento degli ammortamenti imputati a conto economico nel conteggio dell’imponibile.
Quest’ultima soluzione, specie se estesa alle rettifiche di valore e agli accantonamenti, produrrebbe, indubbiamente, un sensibile ampliamento di quella parte della normativa in tema di determinazione dell’imponibile IRES che aderisce al modello del binario unico. Risulterebbe perciò pienamente coerente al criterio direttivo considerato.
Tuttavia, se si assume che, in assenza di regole di variazione, l’Amministrazione finanziaria abbia il potere di verificare la corretta applicazione delle regole contabili[2], fungendo queste ultime anche da regole tributarie, la cancellazione delle regole di variazione relative a detti elementi complicherebbe la fase del controllo amministrativo delle dichiarazioni, aggravando in modo significativo l’incertezza intorno ai suoi esiti.
È pure vero che le qualificazioni (e connesse classificazioni e imputazioni temporali) basate sulla sostanza economica, ormai rilevanti per tutte le società soggette ad IRES (ad eccezione delle micro-imprese), conducono su un terreno ugualmente insidioso, perché connotato da apprezzamenti complessi e dotati di forti margini di opinabilità. La loro applicazione può, ad esempio, richiedere l’identificazione del fair value di un certo bene o servizio, oppure la stima delle probabilità che in futuro si verifichi un certo evento. Ma è altrettanto vero che, anche quando ha attribuito rilievo tributario a dette qualificazioni (prima con riferimento alle società che adottano i principi contabili internazionali, e poi con riferimento a quelle che adottano i principi contabili nazionali), l’ordinamento non ha ritenuto, salvo circoscritte deroghe, di potere riconoscere un incondizionato rilievo agli ammortamenti, alle rettifiche di valore e agli accantonamenti esposti a conto economico.
Per evitare che, una volta cancellate queste regole di variazione, il tasso di incertezza del rapporto tributario registri un forte incremento, si potrebbe ipotizzare di privare l’Amministrazione finanziaria di detto potere, riconoscendo alle voci di conto economico interessate l’attitudine a concorrere alla formazione dell’imponibile IRES alla stregua di meri dati di fatto, senza che in alcun modo rilevi l’osservanza delle pertinenti regole contabili. Si tratterebbe di una scelta radicale, sottraendo al controllo amministrativo la misura di queste voci (se non per difformità tra quanto conteggiato nell’imponibile e quanto imputato a conto economico). È vero che eventuali manovre su di esse si risolverebbero in un differimento del prelievo, non in una sua elisione, ma il differimento potrebbe avere (ad esempio per gli accantonamenti ai fondi rischi o per i beni a più lungo ciclo di ammortamento) una durata significativa, e comportare perciò per l’Erario un non trascurabile danno sul piano finanziario.
Ritengo, pertanto, che questo approccio sia difficilmente praticabile, e che comunque potrebbe riguardare solo una ristretta cerchia di società. Dovendo dare un’indicazione, lo limiterei alle società i cui titoli sono negoziati nei mercati regolamentati (e le società consolidate dalle stesse), stante i controlli cui sono soggette e l’interesse a non sottostimare i risultati di esercizio[3].
Su un piano generale, insomma, laddove, al fine di attuare il criterio in esame nel modo più pieno, si volesse procedere a smantellare le regole di variazione relative ad ammortamenti, rettifiche di valore e accantonamenti, non potrebbe, a mio avviso, negarsi all’Amministrazione finanziaria il potere di esercitare un controllo sull’osservanza delle pertinenti regole contabili.
Per ridurre l’incertezza connessa a questa soluzione, rendendola concretizzabile, si potrebbe ipotizzare la creazione di una fascia di tolleranza, assicurando che le contestazioni in questo ambito siano limitate a casi di insostenibilità evidente (per un soggetto dotato delle necessarie cognizioni specialistiche) dei valori esposti a conto economico, ad esempio ammettendo la loro rettifica solo se il valore ritenuto corretto dall’Amministrazione finanziaria differisca per almeno il 20% da quello esposto a conto economico[4], o comunque la rettifica da compiere sia di importo superiore ad una determinata soglia (ad esempio euro 100.000).
Non è questa, ovviamente, la sede per compiere una ricognizione completa delle ulteriori misure che sarebbe possibile adottare in attuazione del criterio in esame, e secondo le logiche indicate.
Alcune sono state indicate nei primi commenti al disegno di legge.
Concordo sull’esigenza di un intervento sulla disciplina degli interessi passivi, che recuperi i margini di flessibilità offerti dall’art. 4 della direttiva 2016/1164 (ATAD 1), in particolare consentendo la deduzione integrale degli interessi passivi netti fino a 3 milioni di euro (safe harbour) e di quelli sostenuti con parti indipendenti[5].
Ho invece dubbi sull’opportunità di intervenire sulle disposizioni che forfetizzano la deduzione di alcuni oneri per superare le difficoltà relative all’accertamento della loro inerenza all’attività imprenditoriale, come: l’art. 102, comma 9, per le spese relative ad apparecchi terminali per servizi di comunicazione elettronica; l’art. 109, comma 5, per le spese per prestazioni alberghiere e di ristorazione; l’art. 164 per le spese per mezzi di trasporto a motore. Ho altresì dubbi sull’opportunità di intervenire sulla disciplina delle spese di manutenzione di cui all’art. 102, comma 6, la quale intende evitare controversie intorno alla loro concreta appartenenza alla categoria delle spese di esercizio, da imputare a conto economico, o a quella delle spese pluriennali, da capitalizzare (di regola) ad incremento del costo dei cespiti cui si riferiscono.
Discorso diverso può farsi con riferimento alla forfetizzazione riguardante le spese di rappresentanza di cui all’art. 108, comma 2. Operando con riferimento a spese già qualificate come inerenti in base ai criteri definiti, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse, da apposito decreto ministeriale, la loro parametrazione al volume dei proventi derivanti dall’attività caratteristica, che potrebbe sfociare in una variazione al risultato del conto economico, non sembra rispondere ad una qualche esigenza di matrice tributaria, quanto piuttosto ad un ordine extrafiscale, di indirizzo dell’azione degli operatori economici. Verosimilmente alla volontà di calmierare la loro effettuazione. Una giustificazione assai debole, evidentemente, specie in un Paese, come l’Italia, nel quale segmenti significativi dell’economia vivono fondamentalmente proprio di immagine.
Nell’attuazione del criterio direttivo in esame, dovrebbe, a mio avviso, valutarsi in via preliminare l’opportunità di estendere alle micro-imprese il rinvio ai criteri contabili di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio[6]. Posto che detto rinvio serve essenzialmente ad attribuire rilievo in ambito tributario al principio della prevalenza della sostanza sulla forma, e posto che anche le micro-imprese, essendo tenute all’osservanza dei nuovi principi contabili nazionali, devono applicare il principio in questione (pur beneficiando di deroghe in funzione di semplificazione), l’irrilevanza per le stesse del rinvio non appare giustificabile. Determina, infatti, in capo a queste società (le quali, peraltro, stante le loro dimensione, sono maggiormente penalizzate dagli oneri di adempimento) le medesime complicazioni procedurali per superare le quali per le altre società si è fatto ricorso al rinvio.
Una disciplina che andrebbe certamente considerata alla luce del criterio direttivo in esame è, inoltre, quella relativa alle perdite su crediti, di cui all’art. 101, commi 5 e 5-bis, attualmente appesantita dalla previsione di un fitto groviglio di casi e sotto-casi che ne rendono assai difficile una compiuta ricostruzione, alimentando, anziché prevenendo, le liti tra Amministrazione finanziaria e contribuenti. L’ultimo periodo del comma 5, in effetti, rinvia alla cancellazione dei crediti dal bilancio operata in applicazione dei principi contabili.
E tanto potrebbe bastare per regolare il fenomeno, specie laddove si operasse, secondo la linea di intervento indicata sopra, anche sul versante delle svalutazioni, cancellando il severo (ed arbitrario) limite che allo stato penalizza la loro deduzione, per realizzare una piena simmetria tra appostazioni contabili ed elementi dell’imponibile.
Oltre alla legislazione, nel ragionare sulle misure da adottare in base al criterio direttivo in esame, sarebbe opportuno, a mio avviso, guardare anche alla giurisprudenza. A quest’ultima sono infatti ascrivibili orientamenti che, pur sprovvisti di un fondamento nella legislazione, corrispondono, nei loro esiti, a regole di variazione al risultato del conto economico.
Penso, sempre per esemplificare, al divieto di dedurre gli oneri sostenuti per risarcire danni contrattuali o extracontrattuali provocati nell’esercizio dell’impresa[7] e le sanzioni pecuniarie irrogate con riferimento ad azioni o omissioni compiute in funzione di detto esercizio[8], che, a mio avviso ingiustificatamente, la giurisprudenza assume, per il semplice carattere illecito della fonte, come privi di inerenza.
3. L’adeguamento ai mutamenti intervenuti nel sistema economico - Il secondo criterio che il disegno di legge delinea per la revisione della disciplina delle variazioni al risultato del conto economico è quello del suo adeguamento ai mutamenti intervenuti nel sistema economico, “anche allineando tendenzialmente detta disciplina a quella vigente nei principali Paesi europei”.
In assenza di specificazioni, ritengo che il riferimento ai mutamenti intervenuti nel sistema economico debba essere inteso come riferimento a quei mutamenti che sono stati indotti dalla globalizzazione, prima, e dalla digitalizzazione, poi, con la connessa, continua, espansione degli scambi di beni e servizi, spesso dematerializzati, realizzati da remoto.
Questi fenomeni, infatti, non hanno soltanto provocato mutamenti radicali nelle economie degli Stati, ma hanno anche favorito una imponente, e spesso strumentale, riallocazione della materia imponibile tra gli stessi, mettendo in crisi i due pilastri sui quali per quasi un secolo è stata costruita la ripartizione della potestà impositiva sui redditi d’impresa, il transfer price e la stabile organizzazione.
Su questo versante, l'ultimo decennio è stato caratterizzato da un grande fermento a livello internazionale, nella prospettiva di comporre il sempre più accentuato scollamento tra Stati in cui si crea il valore, tipicamente Stati ad elevata tassazione, e quelli in cui i connessi flussi di reddito sono dichiarati, tipicamente Stati a bassa o nulla tassazione, ma anche di superare le difficoltà che si riscontrano nel collocare la creazione del valore, e dunque nell’individuare lo Stato della fonte, in particolare con riferimento allo sfruttamento dei beni immateriali e alle attività dematerializzate dell’economia digitale[9].
L’OCSE, d’intesa con il G20, ha prodotto le quindici linee di azione BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), ed è ora impegnata nella realizzazione degli interventi descritti nel documento “Statement on a Two-Pillar Solution to Address the Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy”, pubblicato nell’ottobre 2021.
Il Pillar One si confronta con la seconda questione, ed è rivolto, in estrema sintesi, ad attribuire una quota (25%) del sovra-reddito delle multinazionali (quando dotate di profitti globali superiori a 20 miliardi di euro, e successivamente a 10) alla potestà impositiva degli Stati dove si trovano i clienti e/o gli utenti.
Esso si concretizzerà in una convenzione multilaterale che dovrebbe essere conclusa nel corso del 2022 per consentire un’entrata in vigore di questa disciplina, anche mediante l’adozione da parte degli Stati aderenti delle necessarie norme di attuazione (secondo un modello predisposto dalla stessa OCSE), entro il 2023.
Il Pillar Two affronta invece la prima questione, e mira, sempre in estrema sintesi, ad assicurare che sui redditi prodotti dalle multinazionali (quando dotate di profitti globali superiori a 750 milioni di euro) l’imposta sia assolta, avendo riguardo a ciascuno Stato in cui operano, con un’aliquota effettiva minima del 15% (Global Minimum Tax, denominata anche GloBE, Anti Global Base Erosion). L’eventuale differenza è prelevata nello Stato di residenza della capogruppo (Income inclusion rule), oppure, laddove non sia possibile, rendendo indeducibili i costi sostenuti nei confronti dei soggetti cui è imputabile detta differenza (Undertaxed payment rule). Le linee guida per la sua attuazione da parte degli Stati sono state pubblicate dall’OCSE nel dicembre 2021. Anche per questa disciplina si punta ad un’entrata in vigore della correlata normativa entro il 2023.
L’Unione Europea, dal canto suo, si è fatta promotrice di un’attuazione omogenea negli ordinamenti degli Stati membri delle linee di azione BEPS, con le direttive ATAD 1 [10] e ATAD 2[11]. Nel marzo 2022, il Consiglio ha presentato una bozza di direttiva avente ad oggetto il recepimento delle linee guida OCSE sul Pillar Two, con la previsione di un’approvazione entro il 2022, e scadenza del termine per il suo accoglimento da parte degli Stati membri al 31 dicembre 2023.
In più, la Commissione europea, rilanciando in una formula a due fasi una proposta di direttiva pubblicata nel 2011[12], ha presentato nel 2016 due proposte di direttiva, strettamente collegate, una relativa ad una base imponibile comune per l’imposta sulle società (Common Corporate Tax Base, CCTB)[13] ed una relativa ad una base imponibile consolidata comune per i gruppi societari operanti all’interno dell’Unione Europea (Common Corporate Consolidated Tax Base, CCCTB)[14]. Nel maggio 2021, con la comunicazione “Tassazione delle imprese per il XXI secolo”[15], ne ha annunciato il ritiro e la sostituzione con un nuovo progetto, denominato BEFIT (Business in Europe, Framework of Income Taxation), che, non diversamente dalle proposte ritirate, dovrebbe condurre alla predisposizione di un “corpus unico di norme sulla tassazione delle imprese per l’UE, incentrato sulle caratteristiche fondamentali di una base imponibile comune e sulla ripartizione degli utili tra gli Stati membri in base a una formula (formula di ripartizione)”.
Ha confermato, dunque, che la prospettiva europea è quella di dare vita, sottraendo la materia agli Stati, ad un pacchetto di regole comuni, informato al modello del doppio binario, per la misurazione degli imponibili delle società residenti negli Stati membri e per il loro consolidamento, in caso di gruppi (tenendo anche conto dei meccanismi di cui ai due pilastri OCSE). L’imponibile consolidato sarà poi ripartito tra gli Stati, ciascuno dei quali sarà libero di stabilire l’aliquota da applicare alla parte di propria pertinenza, sulla base di una formula basata su una serie fattori ritenuti espressivi di un legame con il loro territorio, come le vendite, gli occupati, i beni materiali e i valori immateriali.
In entrambi i perimetri, tanto in quello OCSE, quanto in quello comunitario, evidente è la consapevolezza che una reazione efficace alle criticità generate dai fenomeni considerati non possa essere apprestata in via unilaterale o bilaterale, ma passi da un impegno collettivo e da un’azione unitaria. In ambito comunitario, è inoltre presente l’ambizione ad una disciplina uniforme degli imponibili societari, che sia altresì capace di ridurre gli ostacoli di matrice fiscale all’attività dei gruppi che operano, o intendono operare, all’interno del mercato unico.
Posto, pertanto, che le misure che saranno assunte dai principali Paesi europei in risposta alla globalizzazione e digitalizzazione dell’economia (prevedibilmente) rispecchieranno le scelte compiute a livello OCSE e a livello comunitario, il criterio direttivo in esame, nel richiamo ai mutamenti intervenuti nel sistema economico e alle soluzioni adottate dai principali Paesi europei, sembra congegnato per permettere al Governo, in sede di sua attuazione, se la tempistica dovesse accordarsi, di provvedere al recepimento degli strumenti e delle formule impositive che saranno elaborati in detti contesti, a condizione che, e nella misura in cui, appunto, siano condivisi, e perciò adottati, dai principali Stati europei.
4. Una prospettiva glocal - I criteri direttivi in materia di determinazione dell’imponibile ires commentati ai punti precedenti disegnano dunque quella che possiamo definire una prospettiva glocal, locale e globale insieme.
Locale è l’approccio che contrassegna il primo, il quale, operando in una dimensione essenzialmente domestica, indirizza il Governo verso una riduzione delle variazioni al risultato del conto economico, per ampliare l’area di adesione della normativa in materia di determinazione dell’imponibile ires al modello del binario unico.
Globale è quello che connota il secondo, il quale, nel rapportarsi agli effetti prodotti dalla globalizzazione e digitalizzazione dell’economia, lega (sia pure in modo indiretto, mediante il riferimento alle soluzioni vigenti nei principali Paesi europei) il futuro di detta normativa ai forti impulsi evolutivi che attualmente movimentano le politiche fiscali nel contesto internazionale, a livello OCSE e a livello comunitario.
Questo approccio combinato è oggi inevitabile. L’ordinamento internazionale, in parallelo con la progressiva integrazione delle economie, esprime la tendenza a regolare settori sempre più ampi della fiscalità societaria, persino ad attrarla interamente nella sua orbita, come nella proposta di una base imponibile comune (e consolidata comune) per le società su cui l’Unione europea insiste ormai da una decina di anni.
Come il primo criterio direttivo testimonia, tuttavia, benché indubbiamente recessiva in questo comparto della normativa tributaria, la prospettiva locale non abbandona il campo, continuando a svolgere un ruolo di primo piano nella sua disciplina.
E così, mentre in ambito comunitario si afferma il modello del doppio binario, e di un prelievo insensibile alla coesistenza di una pluralità di sistemi contabili, in ambito domestico, seguendo il verso opposto, si postula la dilatazione della dipendenza dalle regole contabili, e, quindi, dell’influenza dei sistemi contabili sulla misura del prelievo. Questo non esclude, si badi bene, che, nell’attuazione del criterio considerato, le regole relative ai singoli elementi dell’imponibile contenute nella proposta europea possano comunque servire, se idonee a semplificarle e razionalizzarle, da punto di riferimento nella riformulazione delle regole di variazione.
In definitiva, laddove i criteri direttivi commentati dovessero essere confermati in sede di approvazione del disegno di legge delega, il Governo sarà chiamato a districarsi tra le tante opzioni che essi (in particolare, a mio avviso, il primo, atteso che il secondo fondamentalmente rimanda a scelte da effettuarsi a livello internazionale) offrono, e che ho provato, sia pure per rapidi tratti e senza pretesa di completezza, a descrivere in questo scritto. A prescindere dall’ampiezza e dal grado di innovatività degli interventi che realizzerà per attuarli, indispensabile sarà perciò che la sua azione sia costantemente informata a visione sistematica, chiarezza di intenti e rigore metodologico, e, mi permetto di aggiungere, per assicurare questi standard, coinvolga i maggiori esperti espressi dal mondo accademico e imprenditoriale.